Veronica Tomassini racconta Viola Di Grado su Pangea
NewsViola Di Grado, catanese, classe 1987, pluritradotta, è tornata in libreria con un nuovo romanzo, “Fuoco al cielo” (La nave di Teseo), la considero una delle più belle voci della narrativa contemporanea. Di lei dice Michael Cunningham: “è una scrittrice potentissima”. E difatti, leggendola, visionaria e antichissima, chirurgica e lacerante, si staglia la sua poetica, lei stessa, aliena, fuori da qui, creatura che restituisce, in questo suo “Fuoco al cielo”, l’amore straniero e mostruoso, come solo può esserlo l’amore. Tamara e Vladimir, un villaggio nei perimetri non collocabili della Siberia, nel non luogo della “città segreta”, di quel terrore sovietico post staliniano, in un domani terrorifico di minaccia nucleare: Viola racconta la tenerezza violenta (perdonate l’ossimoro) di un amore, lo straniero, capace di ingenerare l’orrore e il raccapriccio, dentro possiamo notare ogni folgorante simbolismo della condizione umana. L’ho intervistata.
L’amore è il grande protagonista stavolta, l’amore che è lo straniero, l’inaudito. Qual è stata la genesi di “Fuoco al cielo”?
Un giorno mi sono imbattuta in un articolo di cronaca: una donna, nel luogo più radioattivo del pianeta, aveva trovato un bambino di venticinque centimetri senza genitali e aveva deciso di adottarlo. Questa storia mi ha rapita e ho deciso di raccontarla, e documentandomi ho scoperto le atrocità delle città segrete, questi luoghi invisibili costruiti sulla morte e responsabili di catastrofi nucleari. Un luogo del genere era ideale per ambientare un’idea, un’atmosfera che avevo in testa da anni: da tempo volevo raccontare l’amore come un contagio, una malsana comunanza o risonanza di traumi e di narrazioni irrisolte di sé. La coppia è un organismo, un mostro a due teste che accorpa in sé ogni mancanza (vuoti affettivi e tutto il resto) e la ripropone in modo più feroce in cerca di una riscrittura, di una salvezza. Coppia è mettere in gioco sia il bene che il male e “amore” è il modo univoco con cui per forza di cose, per sciatta approssimazione linguistica, siamo costretti a chiamare qualcosa di molto personale, che si fa e si disfa con i nostri strumenti psichici irripetibili e difettosi. Ogni amore è diverso, ogni amore mette in campo tutte i sé e ogni sé reclama spazio, tenta con le unghie e con i denti di essere rimesso in ballo, restaurato. […]
Cosa ti ha lasciato la storia di questo amore, mostruoso, come tutti gli amori?
Mi ha lasciato completamente vuota. Finire il libro è terribile, soprattutto per me, perché da sempre, già da quando ero una bambina, mi sento una serva della mia scrittura. Come se ogni esperienza, dolore, pensiero, esistesse in me solo per divenire materiale trasfigurato dei miei romanzi. Benzina della mia scrittura. È un vizio difficile da eliminare, ma probabilmente non ho intenzione di farlo, probabilmente è questo il senso e la forma della mia esistenza. Così quando non scrivo è come se non vivessi, è come se attendessi.
Lo stato della letteratura oggi, secondo te, tu sei l’aliena, è vero?
Sempre stata aliena. Da piccola non lo sopportavo, perché naturalmente avevo bisogno di confrontarmi con i miei coetanei, ma sentivo sempre una differenza enorme, eravamo due specie diverse che non riuscivano a incontrarsi. Crescendo sono diventata orgogliosa della mia diversità. Anche perché la scrittura era il mio casco da astronauta: mi permetteva di vivere qui, in questo pianeta che non mi somiglia, senza che fosse irrespirabile. Lo stato della letteratura? Penso che la letteratura sia viva, come sempre, ma che purtroppo abbia perso del tutto il peso socio-culturale che aveva in passato. Ai libri, adesso, si chiede l’intrattenimento e non l’abisso del pensiero. Adesso, anziché l’ascia che rompe i nostri mari ghiacciati interiori di cui parlava Kafka, il romanzo è la stecca per fare i selfie. Per fortuna esistono molti scrittori bravi, con voci forti che non si fanno corrompere dalla leggerezza tele-sedativa di quest’epoca (tu sei una di loro).
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